Il ritorno dello stile collegiale

Scritto da Redazione Online - 24/04/2025 - 461 visualizzazioni
Il ritorno dello stile collegiale

C’è una certa malinconia nei tessuti a coste, nei bottoni d’ottone lucido, nei colletti rigidi che graffiano appena la pelle. Come una poesia dimenticata in un quaderno rilegato a mano, lo stile collegiale — o “preppy”, nella sua versione transatlantica — è tornato, ma non nella forma prevedibile del revival. È una reminiscenza, un sussurro di decoro e ribellione travestiti da conformismo. E soprattutto, è un campo minato semantico.

Chiunque abbia indossato un blazer blu notte con lo stemma ricamato all’altezza del cuore sa che quella non è una giacca: è una dichiarazione di appartenenza. A cosa, però? A un’idea. Di ordine. Di privilegio. Di educazione — nel senso etimologico del termine, ex-ducere, condurre fuori. O forse di segregazione sociale mascherata da bon ton. Ma è anche un’estetica potente, che oggi viene smontata e rimontata con la meticolosità di chi vuole dissacrare il sacro.

Non è solo moda. È semiotica indossabile. Ed è per questo che lo “stile collegiale” merita più di una guida allo shopping. Serve un atto di archeologia culturale. O almeno un gesto di consapevolezza estetica.

L’eredità ambigua: le radici storiche dello stile collegiale

Nato nei corridoi austeri di Eton e poi migrato con grazia calcolata nei campus di Harvard e Princeton, lo stile collegiale è, in origine, un linguaggio codificato dell’élite. La cravatta regimental non era solo una scelta di stile: era un lasciapassare per club esclusivi, una bandiera silenziosa che diceva “io appartengo”.

Ma è nel dopoguerra che lo stile assume toni meno elitari e più aspirazionali. In Italia, il collegiale si traduce con una lente più estetica che sociale: da Il Sorpasso ai look più castigati dei licei milanesi degli anni ’60, c’è un’attenzione ai dettagli che riflette il desiderio di sofisticazione senza ostentazione. L’abito come modo per essere “a posto”. Che è molto più italiano di quanto si creda.

Questa ambiguità storica — tra uniformità e individualismo, tra rigore e gioco — è ciò che lo rende ancora oggi uno stile fertile, cangiante, mai del tutto domato.

Psicologia della divisa: perché il collegiale seduce ancora

Indossare uno stile che richiama la scuola è, paradossalmente, un gesto adulto. Chi sceglie oggi un maglione con lo scollo a V sopra la camicia con colletto button-down non sta cercando di tornare giovane: sta cercando una struttura. Un ordine.

Nel caos estetico contemporaneo, dove tutto è permesso e nulla è necessario, il ritorno al collegiale è un atto di rassicurazione. Ma attenzione: non si tratta di nostalgia. È più simile a una coreografia psicologica. Come chi torna nel luogo del trauma per riscrivere la narrazione.

Il cardigan blu non è solo un capo comodo: è un’armatura sociale dolcemente aggressiva. E chi lo indossa, spesso inconsciamente, comunica rigore, ma anche la volontà di essere letto attraverso una griglia di significati familiari. È moda, ma anche desiderio di ordine simbolico. Un ritorno al grembo — ma con le Oxford ai piedi.

Rivisitazioni contemporanee: come il collegiale è stato decostruito dalla moda

L’attuale revival dello stile collegiale non è una riproduzione filologica, ma un remix sartoriale carico di sottotesti. Marchi come Thom Browne lo esasperano fino al parossismo, trasformando il college look in una sorta di pantomima per adulti nevrotici. Miu Miu lo interpreta con lenti ironiche, sottraendo centimetri di tessuto e aggiungendo livelli di ambiguità erotica.

E poi c’è il ritorno delle calze bianche, dei mocassini con nappine, delle gonne a pieghe indossate con trench oversize — una silhouette che racconta una ribellione contenuta, quasi claustrofobica. Un’estetica da diario segreto e gita scolastica sotto la pioggia.

L’Italia, come sempre, metabolizza tutto con eleganza strategica: MSGM gioca con i contrasti, Loro Piana con le texture, e persino i piccoli brand sartoriali del centro di Napoli non rinunciano a reinterpretare il doppiopetto da college. Ma senza mai prendere sul serio le regole: è qui il segreto.

I 7 elementi essenziali dello stile collegiale

  1. Il Blazer Navy con Stemma Ricamato: Sembra innocente, ma è un simbolo. Da cercare vintage, meglio se con le fodere logorate.
  2. La Camicia Oxford Button-Down: Bianca o azzurra, ma sempre con quel colletto che si piega appena. Deve sembrare usata. Ma pulita.
  3. La Cravatta Regimental: Non serve saperne la provenienza (ma aiuta). Le righe devono raccontare qualcosa. Anche se fittizio.
  4. La Gonna a Pieghe (o il Pantalone a Vita Alta): Meglio se in flanella o in tessuti inglesi. Il taglio deve oscillare tra austerità e malizia.
  5. Il Maglione Scollo a V: Lana merino, oversize, con colori da pomeriggio piovoso. Blu, grigio o bordeaux.
  6. I Mocassini in Pelle o le Derby: Nessuna concessione alle sneakers, tranne le Superga panna. Con calze visibili.
  7. Il Cappotto Camel o il Trench Classico: Per completare la silhouette: un’ombra lunga che precede chi lo indossa.

Quando lo stile è un codice: perché ogni dettaglio conta

Non si tratta solo di mettere insieme dei capi. Ogni elemento dello stile collegiale ha una funzione precisa nel racconto estetico che costruisce. Il blazer, ad esempio, è la cornice; la camicia è la grammatica. I mocassini sono il punto finale di una frase complessa. Nessun capo è casuale, anche quando finge di esserlo.

Questo è uno stile che non perdona l’approssimazione. Ma, allo stesso tempo, offre infinite possibilità di sovversione. Un calzino color senape sotto un look altrimenti rigoroso può diventare una dichiarazione poetica. Una cravatta lasciata sciolta comunica più di cento parole.

Il collegiale, se preso alla lettera, è noioso. Se lo si reinterpreta con coscienza, diventa quasi filosofico.

Lo stile collegiale come ritualità contemporanea

Nel suo schema rigido, lo stile collegiale lascia spazio solo a chi sa leggere tra le righe. Non è democratico, non è inclusivo — eppure, proprio per questo, è perfetto da decostruire. È un’icona che si presta alla reinterpretazione continua. Un rito visivo che ci permette di giocare con l’idea stessa di identità, status, ordine.

Forse è per questo che, oggi, nei corridoi dei licei di Firenze come nei bar dietro il Parc Monceau, il preppy non muore mai. Si trasforma. Si nasconde dietro dettagli appena percettibili. Ma c’è. Come un insegnante che ti ha segnato e che, ogni tanto, torni a cercare nei sogni.

Perché in fondo, vestirsi come se si stesse per entrare in aula non è nostalgia. È strategia. E in certi giorni — soprattutto in quelli grigi — può anche essere una forma di poesia.

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